Gli psichiatri, a volte, divagano senza ritegno. Jürg Zutt (1893-1980), al contrario, mantiene i piedi per terra e centra il concetto dell’abitare.
Anzi ne fa una delle due fondamentali organizzazioni dell’essere umano: il Wohnordnung “l’ordinamento dell’abitare”.
L’argomento sembra banale e facilmente liquidabile: abitare significa avere una casa ed un indirizzo che ci renda reperibili.
Allargando lo sguardo le prerogative aumentano: la casa è da pensare come un investimento economico, una sicurezza per noi e la nostra famiglia, una certezza per il futuro.
Aggiungiamo pure che, per ampiezza, posizione e preziosità dei materiali può essere considerata il bene per eccellenza, quello che primariamente ci rappresenta nella società a cui apparteniamo. Possedere una “bella casa” è sinonimo più di agiatezza che di buon gusto.
A questo punto, però, il discorso si arricchisce del fattore più squisitamente antropologico e personale.
Per dirla con Zutt la casa è quello spazio delimitato che ci protegge dal caos esterno (quasi un secondo strato epidermico), favorisce il rapporto con sé stessi e facilita i contatti più intimi, consente ritirate strategiche dalle inquietudini del vivere quotidiano; il luogo della tranquillità fiduciosa nel quale l’Io trova la sua naturale espansione, l’ambito in cui si svolgono i riti familiari, il perimetro dell’amicizia confidente; l’oggetto che parla di noi e a cui noi affidiamo ricordi e segreti.
Le osservazioni dello psichiatra tedesco sono valevoli e adottabili per ogni individuo del pianeta. Se la casa è una baracca o un palazzo signorile, una tenda o un riparo di fronde, un carro o un’imbarcazione, il significato profondo di quella superficie circoscritta non cambia: la prima acquisizione di un territorio amico e l’ultimo rifugio da un mondo inospitale.
-William