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  • william

UN MARE DI FOLLIA



Nella tradizione artistica Europea, un’attenzione particolare è stata riservata al legame che unisce, nei suoi molteplici aspetti, il binomio acqua e follia.

Il singolare abbinamento è presente in molti miti e leggende da Icaro a Saffo, da Ofelia a Lorelei; il mare, il fiume o il lago sono lo scenario ultimo in cui si concludono progetti impossibili e sogni inattuabili.

Perché la letteratura abbia scelto, con tanta assiduità, l’elemento acqueo come luogo privilegiato di sfortunate avventure e tragici epiloghi è facile intuire: la peculiarità di alleggerire il peso corporeo e purificare, entrambi presupposti di riscatto spirituale.

E poi l’estensione smisurata, la profondità abissale, l’insondabile arcano delle distese marine, sono qualità collegabili all’idea del “nulla cosmico” e all’agghiacciante privazione di senso, prerogativa della pazzia.

Alla fine del XIV secolo, l’alienazione mentale acquisì i caratteri di emergenza sanitaria e di allarme sociale.

La pittura fiamminga offre un contributo figurativo, allo scacco umano per eccellenza e ci informa di un’usanza in voga presso molti Paesi Europei: affidare alle navi in transito, pazzi e “degenerati” psichici.

Il quadro di Hieronimus Bosch (1450-1516) “La nave dei folli”, esposto al Louvre, raffigura una serie di grotteschi personaggi, a bordo di un piccolo battello, occupati in fatue attività.

I flutti marini, ambiente prediletto del tempo senza storia degli insani velieri di Bosch e di storie separate violentemente dal loro tempo, assumono anche il ruolo di specchio dell’anima, in cui ognuno può veder riflessi, privi di artificiose distorsioni o falsi alibi, i limiti del proprio essere che sono, anche, i confini della follia.

Mondo acquatico e terrestre, pur essendo nettamente distinti come insensatezza e ragione, hanno in comune una zona ambigua in cui la terra lambita dalla risacca non è più mare e il mare sommerge quella che non è più terra.

Una fascia incerta, una “linea d’ombra”, per dirla con Conrad, accompagna il destino dell’uomo-marinaio, sottile demarcazione fra naufragio (non solo fisico) e salvezza, occasione irripetibile per scontare colpe e rimpiangere mancanze. Samuel Coleridge descrive il dramma di un vecchio marinaio che, torturato dalla sete, urla la sua rabbia impotente a un oceano in bonaccia: “Acqua, acqua dovunque e neanche una goccia da bere”.

Ed oggi? I tempi cambiano ed anche l’alienazione veste abiti differenti; il mare ha cessato di essere quella superficie riflettente che accoglie l’immagine degli umani misfatti, il grande infinito che ospitava la follia, esso stesso, ormai,vittima della pazzia.

Dagli anni ’70 ai giorni nostri, gli allarmi sulla salute del mare si sono susseguiti con preoccupante intensificazione. Il comandante Jacques-Yves Cousteau, la più autorevole delle “cassandre”, al solito inascoltate secondo tradizione, denunciò fra i primi, l’inquinamento degli oceani ed il pericolo di giungere ad un punto senza ritorno in cui, il grande polmone liquido non avrebbe potuto più rinnovare sé stesso.

Allo stillicidio massiccio e continuo che quotidianamente avvelena e depaupera subdolamente le acque (quasi sempre ignorato), si alternano catastrofi eclatanti che, per breve tempo, attirano l’opinione pubblica ma troppo poco incidono su misure preventive efficaci, lasciando spazio a palliativi demagogici che tacitano le coscienze e soddisfano le anime semplici come la pia istituzione dei parchi marini, una sorta di segregazione al contrario, che si propone donchisciottescamente di arginare il degrado ambientale “recintando” circoscritte porzioni di acqua salata. Alle riserve marine, memoriali viventi, il compito di rammentare più che correggere la stoltezza collettiva.

Se un malaugurato giorno un poeta dovesse cantare l’agonia del mare o un pittore dipingere i suoi ultimi riverberi color petrolio, molto probabilmente non avremmo più una biblioteca in cui conservare il libro, né un museo in cui esporre il quadro.

-William


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