“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione” Franco Basaglia; Conferenze brasiliane.
Attoniti guardiamo ai fatti criminosi commessi tra le mura domestiche, di cui le cronache danno minuziosi resoconti quotidiani, assecondando la sgradevole sensazione che qualcosa stia scompaginando il tessuto sociale anche all’interno dei nuclei familiari.
La preoccupazione incombente e minacciosa è che stiano scomparendo luoghi sicuri, persone affidabili, rifugi inattaccabili, se in casa un figlio può accoltellare i genitori, il marito sgozzare la moglie e le madri gettare i neonati, non sistemati nei cassonetti, direttamente dalla finestra. Non ultimo, lo scandalo dei preti pedofili avvilisce la reverenda immagine di premurosi pastori dediti alla cura delle anime, infondendo l’idea malandrina che le pecore più furbe non si siano affatto smarrite, ma nascoste, per evitare inopportune attenzioni.
La risposta generica, divulgata con intenti sedativi, chiama in causa i “raptus”, lo stress, le crisi pseudo depressive, fenomeni inspiegabili scritti a margine dell’oscuro capitolo sugli “acting out” (letteralmente: passaggio all’atto). Parlo di quella follia ordinaria, “repentina”, che nessuna categoria clinica ha mai saputo classificare, né gli studiosi del primo novecento giustificare semplicemente come disagi della civiltà.
D’altronde una spiegazione bisogna pur darla a quanti si chiedono come mai il tranquillo vicino di casa, cordiale, educato, mite, senza visibili problemi economici e familiari si sia trasformato in un feroce assassino.
In barba alle sue qualità di scienza medica, dotata di diagnosi, prognosi e terapia, la psichiatria ancora non riesce, come le sue consorelle cliniche, a presumere sulla base di una avvisaglia sintomatologica o sofferenza morale quale sarà l’eventuale sviluppo del morbo.
Ma si può sondare l’animo umano nelle sue più intime pieghe? Penso proprio di no. Ed è inutile incolpare il malessere delle odierne metropoli o farne il solo capro espiatorio. La stessa storia dell’uomo, secondo la Bibbia, ha avuto inizio con un fratricidio e spensieratamente proseguito con una sfilza di morti ammazzati da parenti o congiunti.
L’argomento, non del tutto aborrito, ha riempito intere biblioteche di letteratura, giurisprudenza e psicopatologia impegnando fior di ricercatori nell’individuazione del “quid” che, insinuandosi all’interno della mente, inizia la sua opera distruttiva.
Forse gli smacchi quotidiani che ledono dignità, autostima, il rispetto della propria individualità nell’ambito del lavoro, della famiglia, dei rapporti sociali e con le istituzioni, che vanno sotto il nome di “disagio”, si infiltrano nell’anima in modo quasi insensibile finché un brutto giorno una “puntura”, apparentemente insignificante, non colpirà un centro nevralgico e il malcapitato, non sarà più capace di tessere l’ordinata tela della propria vita.
Per analogia penso al singolare caso di un piccolo ragno, il Plesiometa argyra, che fabbrica meticolosamente la sua ragnatela perfettamente circolare, capolavoro di precisione. Una vespa (Hymenoepimecis argyraphaga) gli si avvicina e dopo averlo stordito inietta nell’addome della bestiola il suo uovo e vola via. Il ragno si riprende ma non sa di essere condannato: al suo interno la larva gli succhia il fluido vitale. Per una settima o due l’animaletto continua a lavorare alle sue reti assolutamente regolari. Poi la larva ha il sopravvento: il succube non è più in grado di procedere e l’opera di geometria perde il fascino della forma ineccepibile. Il ragno, condizionato dal veleno, tesse, ritesse pochi fili, sempre gli stessi che si ispessiscono in un bozzolo senza più un ordine; il disegno originale svanisce e con esso la vita dell’ingegnoso artefice che, impotente, assiste alla crisi irreversibile della propria capacità di controllo.
-William