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GIOCHI E GIOGHI



Iŏcus, nella lingua latina significava scherzo, burla, e solo in seguito acquistò il senso omnicomprensivo che noi diamo alla parola gioco, un tempo riservato unicamente al termine lūdus: divertimento di ogni genere, inclusi spettacoli, gare gladiatorie o corse di bighe, competizioni atletiche e certami poetici.

Il lessico italiano ha ristretto il significato di “gioco” ad ogni “attività liberamente scelta a cui si dedichino, da soli o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini che la ricreazione o lo svago, esercitando capacità fisiche, manuali e mentali” *.

In questa veste, l’attività ludica ha richiamato l’attenzione di sociologi, antropologi, psicologi e filosofi.

E se Kant vide nel gioco un esercizio che produce piacere, Schiller un mezzo per alimentare la fantasia, Piaget un metodo propedeutico allo sviluppo dei processi cognitivi e formativi della personalità, Gregory Bateson (1904-1980) ne individuò l’essenza come espressione metalinguistica.

L’intuizione batesioniana sottolinea quello che nella maggior parte dei giochi avviene e il motivo per cui sono stati inventati: la sostituzione della realtà con una finzione metaforica. Due binari paralleli e indipendenti quindi, se non fosse presente il rischio, collegato all’incognita, che bizzarramente scimmiotta l’insicurezza esistenziale.

Il nodo che lega l’incertezza reale a quella virtuale è la scommessa, patto con cui si decide di “mettere in gioco” sé stessi o un bene qualsiasi, affrontando nel primo caso variegate situazioni concrete, nel secondo sfidando la sorte nella sua duplice probabilità e unico risultato: vincita o perdita.

Nel salto che avviene tra fantasia e realtà il pericolo risiede nel confondere le due cose e prendere per vero ciò che era iniziato all’insegna del “come se”; la metafora ludica si spoglia dell’abito ingenuo dell’as-trazione per la dis-trazione e indossa il velo dell’at-trazione, a volte fatale.

La psichiatria si è occupata del “disturbo” in passato e ancor più nel presente, visto il preoccupante aumento delle vittime del “gioco patologico”.

L’indicazione clinica è del parere che si tratti di una sindrome ossessivo-compulsiva che, come ogni assillo che si rispetti, domina il pensiero del malcapitato costringendolo a compiere azioni che, pur nella consapevolezza di prevedibili danni da esse derivanti, vengono reiterate senza alcuna possibilità di controllo.

Infatti, se il gioco può integrare una scommessa, quest’ultima, fine a sé stessa, non è più un gioco.

La mania di scommettere, senza tener conto di confini, razze e periodi storici, sembra sia sempre esistita in qualità di molesta e imprudente appendice di quel diversivo che di giocoso ha ben poco.

Il naturalista Henri Mouhot nel suo diario del 1860 annotava che i Siamesi amavano il gioco sopra ogni cosa e in ogni sua forma: “Il giocatore investirà in queste combinazioni attitudinali o del caso, una foga così passionale che rischierà nel gioco o nella scommessa ogni suo avere, e quando avrà perduto tutto giocherà perfino il languti, quel misero cencio, unico rivestimento della sua nudità!”.

Nella sindrome ossessiva in generale e specificamente nella “scommessa patologica”, il continuo, naturale, ritmico scorrimento dello “sguardo valutativo”, dal totale al parziale, dall’essenziale al futile, dal generale al particolare e viceversa, si “fissa” bloccandosi, con ostinazione, su un elemento (il gioco) di fatto marginale, e rendendolo, a dispetto di ogni critica, oggetto di una singola inquadratura, talmente dilatato e dispotico da divenire l’unico “motivo di vita”. Il nuovo “modello” si impone allora come un giogo, occupando tutto l’orizzonte percepibile ed esercitando una malefica seduzione che molto promette e nulla mantiene.

-William

* Vocabolario della Lingua Italiana, “Il Conciso”; Enciclopedia Treccani - 1998 – Roma.


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