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  • william

SCACCHI E SMACCHI



L’essenziale è invisibile agli occhi” Antoine de Saint-Exupery (1900-1944)

Nel 1957 il regista svedese Ingmar Bergman (1918-2007) arricchì la cineteca mondiale con Il settimo sigillo. Il film racconta una partita a scacchi fra il nobile cavaliere Antonius Block, reduce dalle crociate, e la morte. Il tema della sfida, che ha come posta il rinvio o l’abolizione dell’obbligato passaggio, ha solleticato fantasie e irragionevoli speranze. Patti e ricatti diabolici, vendite e svendite di anime, intese e intendimenti contro natura, sono i vagheggiati strumenti dell’impossibile baratto, non escluso il gioco, calzante allegoria, in cui si pone sul tavolo l’ultima puntata. Ora, l’ordinaria realtà ci insegna che i termini del baratto esistenziale non riguardano tanto il mettere in palio la morte, evento imprevedibile ma scontato, quanto competere per una vita gratificante, impresa molto più complicata a causa delle preferenze concretizzabili.

La leggenda vuole che proprio una scelta problematica abbia favorito l’ideazione di un gioco basato sulla strategia delle opzioni. Il re indù Iadawa si aggiudicò una battaglia decisiva per la salvezza del suo regno. Tuttavia la tattica vincente causò la perdita del figlio provocando nel sovrano penosissimi sensi di colpa. Un bramino, con intento consolatorio, gli propose uno svago: era il gioco degli scacchi. Il sovrano si appassionò al benefico diversivo che gli consentiva di provare e riprovare le manovre del combattimento. Con immenso sollievo verificò che non vi erano alternative possibili; il successo scaturiva soltanto da quella decisione fatale.

Non desidero spingermi fino a ipotizzare una sorta di “scacco terapia” ma devo riconoscere che l’antico gioco emana un fascino che va ben oltre l’aspetto ludico viste le singolari attinenze con un altro passatempo chiamato vita.

Posti dietro un quadrato con sessantaquattro caselle e sedici pezzi osserviamo l’intero scenario, immaginiamo, ragioniamo, prevediamo, infine muoviamo il pezzo. Otto pedoni sono le piccole opportunità che coltiviamo all’inizio; apparentemente non hanno un gran valore, siamo disposti a sacrificarne qualcuno a cuor leggero salvo rimpiangerne poi l’assenza nei momenti difficili. Le figure di maggior peso sono schierate alle loro spalle; la torre procede in lungo e in largo, l’alfiere corre obliquamente, il cavallo compie l’acrobazia del 7, la regina padroneggia il campo in ogni direzione. Soltanto il re deve essere salvaguardato; dalla sua integrità dipende la vittoria. Quale giocatore non si immedesima, ad ogni partita, col proprio sovrano, vive con apprensione qualsiasi spostamento obbligato, paventa il colpo definitivo che chiude l’incontro? Per lo scopo finale è disposto a cedere, anche se con dolore, i suoi pezzi migliori.

Affinità? Basta citarne una, la più significativa: la lotta quotidiana con un avversario senza volto e senza identità, il mondo in cui viviamo che, dalla parte opposta ostruisce, attacca su più fronti, sovraccarica, inchioda.

E dobbiamo rispondere deviando, interponendo, infilando, tenendo presente che le possibilità si riducono man mano che il tempo scorre. Un rischio da evitare assolutamente, nel gioco come nella vita, è l’adescamento. La tecnica consiste nel far apparire molto conveniente una mossa che, alla lunga, si rivelerà disastrosa. L’insidia nascosta nelle pieghe di una carriera brillante, un rapporto amoroso, una scalata economica e sociale può offuscare la capacità di giudizio spostando l’attenzione, ed è questo il micidiale trucco, su un settore che sembra prioritario, assoluto, di capitale importanza. La gara prosegue. Il caposaldo, caparbiamente difeso, resiste ma l’Io-Re langue, appassisce. Il monarca, isolato, ridotto a muovere su due caselle, agonizza finché un colpo definitivo non lo dichiara, inquietante analogia sociale: “MATTO”.

-William


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