La canzone di Gianna Nannini del 1986 potrebbe essere anche l’etichetta di bizzarre cose di uso quotidiano.
Andiamo con ordine. Innanzitutto il “design”, come intervento decorativo applicato a manufatti artigianali, è sempre esistito. Superata la fase dei bisogni primari e primordiali, l’avvento di un certo benessere, ha spinto tutte le civiltà a ricercare, oltre l’utile, il bello. Quindi vestiti, mobili, suppellettili e perfino oggetti destinati alla peggiore delle attività umane, la guerra, hanno subito affascinanti cure estetiche. Stupende armature, spade istoriate e preziosi finimenti potrebbero essere annoverati anche nel capitolo dell’abbigliamento elegante dell’epoca. E poi cannoni, archibugi, pistole sottoposti a finiture, talmente magnifiche, da far dimenticare la natura mortifera dell’oggetto.
Ma il singolo artigiano ideatore/costruttore rimane quasi sempre anonimo; è la fabbrica o la zona di provenienza ad acquistare notorietà e prestigio. Parliamo infatti di porcellane di Meissen (o Dresda) e di Capodimonte, lame di Toledo, ceramiche di Faenza, vetrerie di Murano o cristallerie di Boemia, tessuti di Damasco, e così via.
Qualche famiglia manifatturiera si impone per la qualità dei suoi prodotti come i Gobelins (XV secolo).
La rivoluzione industriale inglese del XIX secolo permette l’uscita dai limitati ambiti artigianali ed intraprende il più economico procedimento di fabbricazione seriale.
Ed è in questa fase che entra in scena la figura del “designer” come la intendiamo noi. Gli storici del settore citano data, nome e cognome. Agli inizi del Novecento l’azienda AEG affida all’architetto Peter Beherens il compito di progettarle tutto: contenitori (fabbriche), contenuti (prodotti) e, si direbbe oggi, il “marketing”.
Lo sviluppo di questa nuova professione, promosso dai nobilissimi precursori del Bauhaus, continua e ingigantisce nel secondo dopoguerra. Parente intimo dell’arte, il design risponde, nello stesso tempo, ai dettami dell’estetica, della funzione e dei requisiti costruttivi. Come un fiume impetuoso investe tutto e, su tutto detta la sua linea modaiola e socio-comportamentale.
L’affinità familiare con l’architettura gli ha accordato, a pieno diritto, l’accesso al terzo piano di uno dei templi dell’arte moderna, il MoMA di New York.
Un mangiadischi, una macchinetta per il caffè, lampade da tavolo e da terra, macchine per scrivere e per correre, telefoni, posaterie, sedie, poltrone e divani, radio ed elettrodomestici assortiti, auto e scooter (Vespa), tavoli, tavolini e tavolinetti. Elenco mostruoso! Ovviamente nel significato latino di “prodigioso”.
Altrettanto prodigiosi i loro inventori equamente suddivisi nelle specializzazioni della produzione industriale: abbigliamento, automobili, arredamento, nautica, illuminazione, allestimenti, internet. Le idee però non hanno confini e allora capita che un designer si eserciti in molteplici settori. Ad esempio Karim Rashid li ha frequentati quasi tutti e Philippe Stark ha tirato fuori dal suo cilindro uno spremiagrumi, un coltello da cucina, sgabelli, taglia biscotti, orologi murali, lampade, sedie, oltre a progettazioni di immobili (fabbrica di birra ad Asakusa, Tokio), di motociclette (Motò 6.5 Aprilia) e, già che c’era, la realizzazione di uno yacht per Steve Jobs, varato nel 2012.
L’architetto Katerina Kamprani sembra andare controcorrente, almeno nel ruolo di designer. L’artista greca si è divertita, (penso molto), a sovvertire i tre princìpi operativi del design o meglio a sopprimerne uno solo: la fruibilità.
Risultato esilarante. Il sito www.kkstudio.gr/projects/the-uncorfortable offre una panoramica di curiosissimi articoli assolutamente inutili, resi inservibili da avvedute manipolazioni che colpiscono il prodotto nell’essenza funzionale. Sedie inclinate di 45°, tazze con manici orizzontali, scodelle forate, sono alcuni campioni di come la Kamprani abbia voluto, in modo provocatorio, rimuovere dalle sue creazioni ogni voluttà consumistica.
Azzardo un’interpretazione? Fervente discepola dello scrittore e poeta Theophile Gautier (1811-1872) che teorizzava “un’arte per l’arte”, non finalizzata ed esclusivamente fine sé stessa, oppure ispirata guru anticonformista che propone “l’inservibile” come antidoto al martellante cinismo utilitaristico. Insomma: bello e impossibile!
-William